La ricerca di punti di riferimento e la voce unica dell’Ideale

L’articolo di Valentina Caruso 

Di fronte alle sfide, alle incertezze e alle contraddizioni del mondo contemporaneo diviene spasmodica la «ricerca di punti di riferimento» dei giovani: si fa sempre più evidente l’inadeguatezza «un pacchetto di regole», e più concreto il «bisogno di una realtà presente che sia all’altezza del desiderio sterminato del loro cuore». Per la Chiesa diviene perciò un’«avventura entusiasmante» verificare se la proposta cristiana possa rispondere a tali esigenze, che saranno messe a tema nel Sinodo dei Vescovi su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale” del prossimo ottobre. Come contributo in vista di tale appuntamento si propone “La voce unica dell’ideale” (San Paolo, Cinisello Balsamo 2018), riedizione degli appunti di due incontri con i maturandi di Gioventù Studentesca tenuti da Julián Carrón nel 2010 e nel 2013.

Il presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione riconosce nelle scelte cui i ragazzi sono chiamati dopo il diploma un momento cruciale e paradigmatico, primo esempio di quella «battaglia tra la “Voce unica dell’Ideale” e le circostanze che», come più volte nella vita adulta, «cercano di schiacciarla». Sorge allora una domanda affascinante quanto complessa, “Perché sono al mondo? A che vale la pena vivere?”, a cui è possibile rispondere solo ricercando il legame tra il proprio io e il senso del mondo: «Il valor mio e il tuo stanno nella misura in cui collaboriamo al regno di Dio, in cui aiutiamo l’umanità a camminare verso la felicità. Perché è soltanto partecipando a questo regno che il singolo può raggiungere la propria felicità».

Sono tre i criteri che il sacerdote suggerisce ai giovani per realizzare tale proposito. Innanzitutto è necessario conoscere e mettere a frutto le proprie «inclinazioni» e «doti naturali», dono che è assieme richiamo, semplice e gioioso, con cui il Mistero ci chiama. Fondamentale è, però, commisurare tali inclinazioni alle «circostanze inevitabili», anche e soprattutto quando apparentemente avverse: con don Giussani possiamo riconoscervi «la cosa più amica che abbiamo, perché, a fronte delle nostre incertezze e paure, indice assolutamente sicuro della strada da percorrere. Qualsiasi circostanza», secondo Carrón, va perciò accolta come «parte del raggiungimento del destino, della felicità che non dipende dalla riuscita mondana ma dal mio servizio al tutto, al regno di Dio». Terzo criterio è, infine, «il bisogno sociale, o meglio, del mondo e della comunità cristiana».

Indagando su tali fattori con appassionata serietà e un serrato confronto con guide spirituali adulte, sarà possibile decidere sulle due scelte fondamentali che ognuno di noi è chiamato a fare: lo stato di vita e la professione. Nel primo caso, ricorda l’autore, bisognerà discernere tra due alternative: la prima consiste, come diceva Giussani, nel «porsi di fronte a Dio attraverso la mediazione di un’altra persona» amata, «che ti richiama ad aprirti alla totalità. Nessuna persona», spiega Carrón, «ti fa ridestare tutto il desiderio di felicità come quella persona lì, ma allo stesso tempo nessuna è più incapace di compierlo. Questa incapacità è parte della vocazione, quella persona ti è data per ridestare tutto il desiderio di camminare insieme verso Colui che lo compie». Ma nella vita della Chiesa c’è un altro stato di vita, la verginità, la cui importanza «apparirà chiaramente se noi recuperiamo il motivo ultimo per cui ci si offre a Dio: l’imitazione di Cristo», che in tale scelta «tocca il suo vertice». Essa chiama «a un rapporto unico, immediato, diretto, con il Mistero»: e ciò «è per una pienezza, non per un sacrificio, è l’essere stato affascinato da Cristo, l’addentrarsi in un possesso più profondo e più finale delle cose». La verginità è, dunque, «il paradigma, l’ideale non di un non-possesso, bensì di un possesso più vero, un modo più profondo di possedere la donna, di possedere le cose: è un compimento vero affettivamente parlando, perché è quello a cui sono chiamati tutti».

Analoga strada va seguita nella scelta della professione. «Il criterio con cui la mentalità di oggi abitua a guardare l’avvenire fa centro sul tornaconto, o sul gusto, o sulla facilità dell’individuo: un punto di vista da cui è totalmente assente la devozione al tutto e la preoccupazione del regno», osserva l’autore. «Invece la mentalità cristiana travolge quelle domande, le contraddice, e rende gigante l’imperativo opposto: “Come io potrò donarmi con quel che sono, servire di più al tutto, al regno, a Cristo?”. È questo che dobbiamo chiedere: che il Signore ci dia la grazia di vedere tutti i segni che ci consentano di identificare la vocazione in modo tale da non sbagliare la strada e renderci disponibili. Perché la vocazione non è un comando; è un suggerimento, un invito, una possibilità intravista, e vi lascia tutta la libertà».

La fatica nel superare gli ostacoli, l’incertezza di seguire un’ideale autentico e non un’ideologia, l’affermazione della propria libertà nel seguire il destino: sono alcuni tra i dubbi e le paure che, inveitabilmente, accompagnano il discernimento e il perseguimento delle scelte personali e lavorative e che trovano voce nelle domande degli studenti, cui Carrón risponde nella seconda parte del volume. «Il problema», sottolinea, «è non avere paura di sbagliare», perchè «nella fatica stessa noi cominciamo a percepire qualcosa di positivo: che non mi posso accontentare. La questione è se noi, a partire da questa esperienza elementare, incominciamo una strada. Occorre», infatti, «un’educazione a entrare nel reale», perché troppo spesso si cade nella tentazione sintetizzata da un celebre verso dell’Amleto shakespeariano, dimenticare che «c’è più realtà di quella che io riesco a vedere, che devo spalancare gli occhi, che devo essere disponibile a entrare nel reale aspettando quel che ancora non so». Così «uno inizia a trovare delle cose interessanti che lo sostengono lungo la strada, che rendono ragionevole la fatica. Allora la questione è se noi ci lasciamo prendere da queste cose e, leali con quel desiderio di pienezza che ci troviamo addosso, partecipiamo all’avventura della conoscenza». Ad indicare la verità e opportunità di tale percorso saranno la passione che rende capaci di sacrifici e la durata nel tempo. «Convivenza nel tempo e attenzione ai segni – dice don Giussani ne All’origine della pretesa cristiana – sono le condizioni per arrivare alla certezza su una cosa. Avete una serie di indizi che non vi siete inventati voi e che hanno resistito nel tempo: occorre che vi diate delle ragioni che resistano anche quando passate per momenti in cui non è così chiaro. Poi può sempre arrivare la nuvola, il momento di difficoltà. Ma questo non mette in discussione tutta la quantità di segni che ti hanno portato lì».

Il metodo così delineato fa appello alla più piena e consapevole libertà umana: «Spesso pensiamo: siccome mi sono trovato in questa situazione inevitabile, non posso raggiungere quella felicità che desidero. La questione è che posso arrivarci in un modo, secondo un percorso, un disegno, che non è il mio. La questione è se noi incominciamo ad entrare nella vita con questa apertura, spalancati a vedere come il Mistero ci può sorprendere. Allora», conclude Carrón «la libertà non è soltanto la capacità di scegliere, perché anche quando posso scegliere tante volte non raggiungo ciò che desidero. La libertà me la sorprendo addosso quando percepisco una pienezza a cui io aderisco e che mi rende contento. Per questo è un’avventura: come possiamo, ciascuno di noi, scoprire quel che ci rende felici per potervi aderire? Giussani dice che il problema fondamentale del vivere non è di intelligenza, ma di attenzione: siccome non è una cosa che costruiamo noi, che raggiungiamo noi, ma che noi scopriamo, la questione è se noi siamo così attenti da scoprirlo».

 

Foto: sancarlo.org

Please follow and like us: