Quando penso a questa “beatitudine” dell’imperfezione, non penso all’essere beatamente recidivi ad ogni cambiamento in positivo, bensì beatamente consapevoli dei propri limiti. Intendo che l’atteggiamento di tolleranza verso sé stessi e la propria imperfezione è qualcosa che scongiura la mancanza di perdono verso ciò che non ci sta bene di noi stessi, i nostri errori. Insomma, questa beatitudine assomiglia un po’ alla prima del sermone della montagna: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”; cioè, beati gli umili. Il perdono di noi stessi e l’accettazione di essere creature fallaci, perdonarsi quei due anni fuori corso, o di aver perso tempo dietro ad una persona tanto sbagliata quanto dannosa per noi, è qualcosa che non è assolutamente scontato, e che a volte richiede tempo, umiltà e tanta pazienza. Ci sarà sicuramente chi in questo riesca bene e subito nella vita. Qualche creatura un po’ più pretenziosa, può metterci più tempo. Il fatto è che sappiamo che da qualche parte esista la perfezione, anche fosse solo un concetto. Così la ricerchiamo, e proviamo a plasmarci a sua immagine, ma ciò non è possibile! Siamo delle creature fallaci, piccole. Dovremmo a volte, solo restare in silenzio, fermi, ad ascoltare quello che il nostro io avrebbe da dirci, che magari è solo: “Fermati! Rallenta! Non ce la faccio ad andare così veloce, veloce verso una perfezione che non raggiungerò mai!”. Spesso finiamo per odiarci profondamente perché, da una parte, non ci perdoniamo nessun piccolo fallimento e vorremmo essere perfetti, dall’altra perché vorremmo solamente essere liberi di essere noi, così come siamo.
Fonte: laperladigrandevalore