I gesti delle donne del Vangelo e le lacrime

Pubblichiamo l’articolo di padre José Tolentino Mendonça apparso sulle pagine de L’Osservatore Romano

Le donne del Vangelo si esprimono preferibilmente con gesti. La loro fede cerca il conforto del toccare (sensibile, emotivo, disarmato), anziché l’astrazione. S’impegnano nella dedizione del servizio nascosto, dove il bene dell’altro viene in primo luogo, più che la preoccupazione di contendersi la leadership o di stare sempre un passo avanti. È curiosa la formula che Luca impiega nel sommario del capitolo 8 (vv. 1-3): «In seguito egli se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Magdala, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni».

Esattamente come i Dodici, le donne «erano con» Gesù. Facevano del suo destino il proprio destino. Ma il testo aggiunge una cosa che riguarda soltanto loro: «Servivano». Nella grammatica di Gesù non c’è verbo più nobile né più religioso di questo. Servire. Quella che le donne ascoltano è la lezione centrale e instancabile di Gesù. Non è cosa da poco! In effetti non sentiremo uscire dalla loro bocca grandi domande o commentari. Da un lato, perché non era contemplato, nel quadro culturale del i secolo, dare ascolto a quel che le donne pensavano. Ma, dall’altro, perché le donne rappresentano una posizione profondamente evangelica.

Non vediamo nessuna di loro chiedere a Gesù: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?» (Luca, 13, 23); o, in una prospettiva più individuale: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» (Luca, 10, 25). Nessuna lo interroga circa la sua autorità o si mette a discutere la legalità degli atti di misericordia che egli pone in atto. Le donne sono estranee a quella batteria di domande che tentano di intrappolarlo, del tipo: «Non è il figlio di Giuseppe?» (4, 22); «Che parola è mai questa?» (4, 36); «Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?» (5, 30); «Perché fate ciò che non è permesso di sabato?» (6, 2). Nessuna s’indigna con lui facendo commenti quali: «Chi è costui che pronuncia bestemmie? Chi può rimettere i peccati, se non Dio soltanto?» (5, 21). Anzi.

Anche se una volta sola, Luca racconta che dal cuore della folla uscì il grido irresistibile di una donna anonima. Un grido chiarificatore: «Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!» (Luca, 11, 27). Abitualmente, sulle piazze la voce delle donne non si fa udire, o la si percepisce tremula come quella dell’emorroissa, secondo il narratore lucano: «La donna, vedendo che non poteva rimanere nascosta, si fece avanti tremando e, gettandosi ai suoi piedi, dichiarò davanti a tutto il popolo il motivo per cui l’aveva toccato, e come era stata subito guarita» (8, 47).

Ma quel grido, poco prima, di una voce anonima nella folla forse soltanto una donna poteva emetterlo. Esso parla di gestazione e di crescita, di quella beatitudine non specificamente teologica, ma universale, che è il cullare con amore il concreto della vita, il chinarsi su di essa, nutrirla, aiutare un’esistenza a consolidarsi.

Esiste, chiaramente, una forma altra di comunicazione, e sono le donne a interpretarla. «Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!». Con le donne c’è un flusso di realtà che interviene a modellare la fede. Che in tal modo non rimane prigioniera — come invece spesso succede a quella maschile — del razionalismo, della dottrina vissuta meccanicamente, del rito. C’è una densità esistenziale, un sapore della quotidianità, in loro, che viene a profumare la fede. Frequentemente lo spazio è quello domestico. L’occasione è un pasto. L’ambito è quello delle relazioni. L’esercizio è quello della cura. E c’è una sensibilità che avvolge il tutto della vita, anche quando questa è minuscola e dolorante.

Curiosamente, uno degli elementi che collega i vari personaggi femminili in Luca sono le lacrime. La vedova di Nain, la peccatrice, le donne di Gerusalemme… tutte piangono. E, probabilmente, a modo loro anche la donna curva, la donna che cerca la moneta o l’emorroissa. Le lacrime sono un traboccare che esprime l’eccesso di qualcosa. Emozioni, conflitti, gioie, solitudine, ferite. Siamo spesso travolti dalle nostre stesse lacrime. Ci succede di piangere anche senza volere.

Ma le lacrime dicono che Dio s’incarna nelle nostre vite, nei nostri fallimenti, nei nostri incontri. Nei Vangeli, anche Cristo piange. Gesù si carica della nostra condizione, si fa uno di noi, e per questo le nostre lacrime sono inglobate nelle sue. Le porta con sé veramente. Quando piange, raccoglie e assume solidalmente tutte le lacrime del mondo. Sappiamo ancora poco, forse, di questo misterioso paese che sono le nostre lacrime. Pur essendo un evento non-verbale, non per questo le lacrime non sono un linguaggio, un grido forte benché silenzioso, una specie di sete che viene in tal modo dichiarata, esposta.

Le donne dei Vangeli concedono diritto di cittadinanza alle lacrime mostrando quanto grande sia l’importanza di questo segno. Esse ci spiegano il sacramento della sete. Una volta hanno chiesto a Julia Kristeva, non credente, un commento sulla beatitudine di Gesù «Beati voi che ora piangete» (Luca, 6, ). Rispose che, in quanto psicanalista, la capisce molto bene. Quando un paziente fortemente depresso arriva a piangere sul divano, accade una cosa molto importante: sta cominciando a prendere le distanze dalla tentazione del suicidio. Le lacrime non narrano il desiderio di morire, bensì la nostra sete di vita. Nelle lacrime che in questo momento cadono da tanti occhi, proviamo a vedere la sete della nostra epoca, il gemito, che sale ai cieli, di questo immenso flusso umano in cui stiamo anche noi.

Le lacrime sono la zona visibile, trasparente e viva del nostro desiderio. Scorrono da dentro verso l’esterno del nostro corpo, ma esprimono la più recon dita e intensa interiorità. Negli umani, il pianto è sempre una forma di relazione. È così fin da bambini. Il pianto di un bebè non dimostra soltanto il suo bisogno concreto di attenzione e la necessità che esso venga soddisfatto, ma è la manifestazione di un desiderio più ampio e ugualmente vitale: la sete di relazione. Piangendo, cerca un interlocutore che raccolga il più vero dei messaggi, quello del suo corpo, non quelli della sua lingua.

È interessante come molti santi — tra cui Ignazio di Loyola — piangessero copiosamente. Nei Vangeli abbiamo le lacrime di Pietro. Il filosofo Emil Cioran diceva che il più grande dono della religione non può essere che questo: insegnarci a piangere. Le lacrime danno un senso di eternità al nostro divenire. Ci guidano da una condizione di orfani fino all’estasi. Cioran ricorda, per esempio, che quando alla fine della vita san Francesco d’Assisi rimase quasi cieco, i medici attribuirono il suo male a una sola causa: l’eccesso di lacrime. E diceva che «al giudizio finale verranno pesate soltanto le lacrime».

Pensiamo alle nostre lacrime. Alle prime che abbiamo versato nella nostra infanzia e alle ultime, alle più recenti. La nostra biografia può essere raccontata anche attraverso le lacrime: di gioia, di festa, di commozione luminosa; e di notte oscura, di lacerazione, di abbandono, di pentimento e di contrizione. Pensiamo alle nostre lacrime versate, e a quelle che sono restate un nodo in gola e la cui mancanza ci è poi pesata, o ci pesa ancora.

Il dolore di quelle lacrime che non sono state piante. Dio le conosce tutte e le accoglie come una preghiera. Abbiamo fi ducia, dunque. Non nascondiamole a Lui. Per Gregorio Nazianzeno, le lacrime sono un battesimo. Egli parla in realtà di cinque battesimi: il primo, allegorico, si produsse nell’attraversamento del Mar Rosso guidato da Mosè (1 Corinzi, 10, 2); il secondo è penitenziale, rappresentato da Giovanni Battista; quello di Cristo è il terzo, e avviene nello Spirito Santo; il quarto battesimo è quello dei martiri, che si fa nel sangue (anche Cristo l’ha conosciuto); il quinto battesimo è quello delle lacrime, e ci è sempre accessibile. Anche coloro che hanno perso la possibilità di piangere con lacrime, non hanno perduto del tutto la possibilità di piangere. Cioran diceva inoltre che le lacrime sono ciò che può renderci santi, dopo essere stati umani.

In Luca 7, 36-50 vediamo una donna che piange (e che insegna a piangere). Un fariseo ha invitato Gesù a pranzo, e lei ha la faccia tosta di comparire proprio lì. La sua presenza non ha la minima legittimità formale. Giunge come un’intrusa, e viene solo perché sa che Gesù si trova alla tavola del fariseo. La donna è dunque, fin dall’inizio, un personaggio che rientra nell’orbita di Gesù. Viene per seguirlo, come una discepola anonima, discepola di Gesù in pectore, come lo sono tanti dei nostri contemporanei.

Senza l’aiuto di nessuno lo riconosce, ponendosi, in modo visibile, dietro di lui, fiduciosa che egli la proteggerà dalla più che prevedibile ostilità degli altri. È difficile restare indifferenti all’apparizione di questo personaggio.

La donna entra ed esce in silenzio, ma il lettore avverte quanto il suo passaggio si carichi di una verità incontestabile. Invece che alle parole, lei ricorre a un linguaggio plastico, forse più incisivo di quello verbale. Si domanda Friedrich Schlegel: «Che sono mai le parole? Una lacrima le supera tutte in eloquenza». Ci troviamo proprio in questa situazione. Su quello scenario improbabile che era la casa del fariseo, l’innominata presenta la propria storia. E lo fa come può: con il suo pianto prolungato, i capelli che strusciano sul pavimento della casa dell’ospite, in una coreografia umile e lancinante, i baci e il profumo che nessun altro aveva avuto il pensiero di offrire a Gesù.

 

Foto: https://antoniobortoloso.blogspot.com/2018/04/panequotidiano-le-donne-corsero-dare.html

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